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La lingua italiana: la nuova madre del Mediterraneo

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Quando si pensa all'Italia e alla sua cultura, spesso la si associa all'idea di accoglienza, alla figura della madre che accoglie e accudisce.

I recenti sviluppi politici e culturali, hanno però dimostrato che anche un'altra madre sta accogliendo sempre più stranieri: la lingua italiana.

Da Trento a Catania, l'italiano è stato il filo conduttore che ha unito terre, tradizioni e abitudini a volte molto diverse tra loro e negli ultimi anni sta tessendo una rete ancora più ampia, abbracciando popoli, sogni e speranze.

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La cosiddetta seconda generazione di immigrati ci aveva abituati, già decenni fa, a incontrare numerosi italiani, nati e cresciuti nel nostro paese, dai tratti asiatici, africani o mediorientali e a vedere come queste persone, ovviamente e naturalmente, padroneggiassero non solo la lingua italiana ma anche i suoi dialetti. Se, però, il fenomeno della seconda generazione rientra nello sviluppo classico del processo migratorio di ciascun paese, ce n'è un altro in lento e costante sviluppo, strettamente legato alle vicende politiche internazionali degli ultimi anni.

La posizione geografica e il carattere proprio del paese, fanno dell'Italia uno snodo cruciale nel Mediterraneo, una delle porte principali verso l'entroterra europeo, attirando viaggiatori, sognatori e uomini e donne in cerca di speranza, ragion per la quale la migrazione ha sempre costituto una parte integrante della sua storia.

Se questa storia la si guarda dal punto di vista macroscopico, ci si rende conto che i flussi migratori verso l'Italia sono per lo più mossi dalla volontà dei migranti di raggiungere le coste europee e di cercare condizioni di vita migliori, magari procedendo nel loro cammino verso il nord dell'Europa. L'esperienza, però, ci insegna che spesso la nostra vita si caratterizza per ciò che ci accade lungo il viaggio verso le nostre mete e che i luoghi in cui viviamo e le persone che incontriamo lasciano delle tracce nel bagaglio che portiamo con noi. È così che i numerosi migranti che raggiungono il nostro paese si immergono nella vita quotidiana dell'Italia, nella sua ricchezza e complessità, entrando in contatto con la nostra cultura e, di conseguenza, con la nostra lingua, che diventa veicolo di comunicazione tra popoli e culture diversi tra loro, laddove spesso si pensa esclusivamente al carattere internazionale della comunicazione e alla lingua inglese come lingua veicolare per eccellenza.

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Vivendo all'estero da anni, spesso ho sentito gli stranieri lodare la lingua italiana per la sua bellezza e la sua musicalità, per il suo stretto legame con la nostra cultura (artistica, culinaria e musicale), ma qualcosa sta cambiando per la nostra lingua, che sta assumendo un ruolo nuovo e non attribuitole finora, almeno non in tempi recenti: molte persone entrate in Europa come migranti, utilizzano l'italiano come lingua veicolare, anche all'estero. Persone che hanno vissuto e studiato in Italia, che poi si sono spostate in un altro paese d'Europa, usano spesso la nostra lingua per parlare con altri che hanno avuto la loro stessa esperienza in Italia o per parlare con gli italiani o addirittura come lingua per esprimersi dinnanzi a istanze ufficiali in paesi stranieri.

L'Italiano assume, dunque, un ruolo nuovo e tesse la sua rete di abbraccio e di accoglienza oltre i suoi confini, includendo molti paesi, lingue e culture: dai paesi dell'est Europa fino al Medio Oriente e all'Africa, a causa di sconvolgimenti politici e, a volte, di vicende umane difficili, ma risultante in nuovi spazi d'incontro e nuovi legami con il nostro paese, in piena evoluzione e dal volto sempre più multiculturale.

Da interprete e traduttrice, non posso non osservare questo fenomeno da un punto di vista linguistico e professionale: sempre più spesso, infatti, vengo chiamata a interpretare per persone che non sono di madrelingua italiana, ma che desiderano esprimersi in italiano.

Nell'ambito degli studi linguistici, ci si occupa molto spesso (e a ragione) dell'inglese parlato dai non madrelingua: adesso cominciamo anche ad avere l'italiano parlato da non madrelingua.

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Diversi aspetti della professione e della professionalità dell'interprete.

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Verrebbe da chiedersi: l'interprete professionista, è semplicemente colui o colei che dispone di una conoscenza eccellente della propria lingua madre e delle lingue di lavoro, tali da riprodurre fedelmente il messaggio dalla lingua di partenza a quella di arrivo, oppure è dotato di altre capacità, linguistiche e socio-psicologiche?

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Senza ombra di dubbio, l'interprete professionista è chiamato a fornire il più elevato livello di servizio linguistico possibile, sulla base degli ambienti e delle situazioni in cui si trova a operare ed è esattamente sulla base di questo principio che egli è portato, talvolta, a fare delle scelte che potrebbero sembrare inconsuete ai non addetti ai lavori.

Diverse volte mi è capitato, infatti, di dover interpretare dall'italiano verso il francese o verso l'inglese, per qualcuno che si esprimeva in italiano, ma che non era di madrelingua italiana.

Qual è l'atteggiamento da assumere in queste situazioni?

Bisogna innanzitutto pensare che ci troviamo dinnanzi a una persona che ha appreso l'italiano come seconda lingua e, nei casi in cui sono stata coinvolta in prima persona, molto spesso l'apprendimento della lingua è avvenuto nella vita quotidiana. Ci troviamo, quindi, dinnanzi a qualcuno che non ha una conoscenza estremamente ampia del nostro vocabolario e dei nostri registri linguistici.

Il compito dell'interprete, dunque, è quello di adattare il registro al proprio cliente, cercando di essere quanto più possibile fedele al messaggio di partenza e utilizzando, al contempo, un linguaggio semplice e comprensibile.

Il nostro registro deve necessariamente abbassarsi a favore della comprensione e, lavorando principalmente in ambiti istituzionali, questo è stato per me motivo di riflessione, soprattutto all'inizio della mia carriera in ambito giudiziario.

Si definisce, dunque, professionale un interprete che abbassa il proprio registro rispetto al discorso di partenza?

In alcuni casi, possiamo sicuramente dire di si.

Se ci si trova, ad esempio, dinnanzi a un giudice d'istruzione che sta interrogando una persona accusata di un dato reato, è ovvio che egli utilizzerà un linguaggio tecnico e un registro tipici del settore giuridico, ma sarebbe utile per il cliente ricevere un'interpretazione formale, in cui si citano leggi e codici e in cui, in italiano, si riproducono i formalismi della lingua di partenza?

Un atteggiamento del genere contribuirebbe, senza dubbio, ad aumentare i timori del nostro cliente e la sua inquietudine durante l'interrogatorio, data la scarsa comprensione da parte sua del contenuto della comunicazione.

A mio avviso, in questi casi molto viene affidato alla sensibilità dell'interprete stesso e ai cosiddetti segni del linguaggio non verbale: se ci si rende conto che il nostro cliente non ha totalmente compreso il contenuto di un'informazione a egli destinata, si possono integrare brevi chiarimenti, a vantaggio della sua comprensione.

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Abbiamo, dunque, tutta una serie di strumenti e di principi professionali a nostra disposizione, che possiamo utilizzare come meglio crediamo, a seconda della situazione nella quale ci troviamo.

Quale sarà, allora, il futuro della nostra lingua e soprattutto dell'italiano all'estero?

Risulta sicuramente difficile fare delle previsioni sulle evoluzioni della lingua italiana, a livello europeo e internazionale, ma sarà sicuramente interessante seguirne l'evoluzione in qualità di lingua veicolare per tutti i parlanti di lingua italiana (madrelingua o meno).

 

Sarà interessante, inoltre, seguire gli sviluppi linguistici successivi alla brexit in termini di lingue veicolari utilizzate in Europa, in ambito sia istituzionale sia non istituzionale.

Certamente, l'inglese non abbandonerà dall'oggi al domani il ruolo svolto finora, ma la vivacità e la dinamicità dell'evoluzione linguistica potrebbe, forse, riservarci delle sorprese.

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I tempi difficili in cui viviamo ci forniranno indubbiamente interessanti spunti di riflessione.

L'uso di espressioni inglesi in italiano: efficace strumento di marketing per i social media o effetto boomerang?

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Da anni si dibatte sull'apprendimento delle lingue straniere in Italia, sul metodo migliore da utilizzare per permettere ai nostri giovani (e meno giovani) di raggiungere livelli di padronanza della lingua straniera almeno paragonabili a quelli degli abitanti dei paesi del nord Europa.

L'italiano affonda le proprie radici in secoli e secoli di storia e la nostra cultura linguistica sembra quasi rappresentare un ostacolo all'apertura verso le altre lingue laddove, per esperienza, posso dire che lo studio e la padronanza di lingue diverse non fanno che accrescere l'amore e l'apprezzamento per la propria.

Lavorando in ambito linguistico, sento spesso parlare di metodi di apprendimento o di insegnamento, più o meno rapidi, soprattutto per quanto riguarda la lingua inglese, croce e delizia di tanti studenti e lavoratori.

Eppure molti italiani fanno ancora fatica. Dopo anni passati sui banchi di scuola a studiare le regole grammaticali della lingua inglese, dopo ore e ore di esercizi o di analisi di testi letterari, non si riesce a raggiungere il livello di padronanza auspicato.

Sembra una tendenza comune ai paesi mediterranei, ma nel caso specifico mi sono concentrata sull'Italia e la riflessione è nata dall'osservazione del linguaggio utilizzato sui cosiddetti social media.

La frase in inglese, postata con l'intenzione di creare un effetto o di attirare l'attenzione, potrebbe rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio, soprattutto se scorretta. 

Se l'errore in questione viene fatto in una frase pubblicata su Facebook, che commenta un viaggio, un'uscita o una qualsivoglia altra esperienza, è possibile contare sulla benevolenza dei propri amici, che perdoneranno la distrazione o l'inesattezza (attenti, però, a non avere amici linguisti!!), ma se si tratta di un profilo professionale o di un profilo personale, ma di una persona presente sui social anche con un attività professionale, allora bisogna fare molta attenzione all'effetto boomerang.

La professionalità e l'immagine di una persona, soprattutto sui social dove la presenza è solo virtuale, passa anche dalla cura del materiale pubblicato e dalla forma attraverso la quale viene presentato un certo contenuto e se tale contenuto presenta errori, anche in brevi frasi che dovrebbero suscitare un qualche effetto nel lettore, il risultato potrebbe non essere quello desiderato.

Sarebbe bene, dunque, iniziare a curare i dettagli anche nelle comunicazioni brevi, temporanee, destinate a scomparire tra mille e mille post ma che, se visualizzate tra qualche tempo da persone che non ne conoscono personalmente l'autore, comunichino la sua attenzione per il messaggio pubblicato. L'attenzione e l'amore inizia dalle piccole cose e si riflette in quelle grandi. A volte siamo accusati di essere approssimativi e non troppo disciplinati: cominciamo dai dettagli e dimostriamo che si può cambiare. Si dice che i social media stiano cambiando il modo di comunicare, rendendo tutto troppo veloce e stringato: cogliamo l'occasione per imparare ad essere concisi, ma corretti ed efficaci. 

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